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Festival Cinema Venezia 2009: recensioni film, interviste

 
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Odissea nello strazio

di Goffredo Fofi

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31 agosto 2009
Una scena di "Lo spazio bianco" di Francesca Comencini, la cui protagonista è Margherita Buy

Una volta era la famiglia, l'unico rifugio, l'ultimo in una "società senza cuore". Una volta, quando utopie e movimenti morivano e la società tradiva. E oggi? Non regge più neanche quella, e storie su storie, anche veneziane, continuano a ripetercene l'insufficienza, con buona pace dei celibi vaticanensi. Personaggi in fuga prima ancora che alla cerca popolano il cinema che resta, lo scarso cinema che i registi che non ne accettano la interminabile agonia si ostinano a realizzare per un mondo (un pubblico) che non sembra averne più bisogno.

"Venezia 2009" dimostrerà qualche cosa? La mania di interrogare il cinema che ancora si fa (e perlopiù non si vede: sono meno che mai i film del concorso con un distributore italiano) per capire gli umori collettivi, addirittura planetari, prende i giornali e coinvolge i commentatori, che si affannano a cercare una linea, una sottotraccia che leghi tra loro opere obbligatoriamente disparate, da più parti del mondo e da più generazioni di cineasti. Stiamo al gioco, però, visto che i film non li abbiamo visti e che le previsioni non sono consolanti, e interroghiamo i plot, i temi che si impongono. La madre di Lo spazio bianco di Francesca Comencini (e Valeria Parrella) cerca anche se stessa nello sforzo di tenere in vita un figlio nato molto prima del tempo, il gioco affettivo è strettamente biologico, ai due essenziali, genitrice e prole, e il resto è secondario. I giovani veri o falsi ribelli dell'ex carabiniere, Placido, dentro il '68 forse han più bisogno di risolvere il "privato" che non il "pubblico" – certamente in anticipo sui tempi (e come sia difficile raccontare il '68 anche per chi c'era, ce l'ha già ricordato Bertolucci proprio a Venezia pochi anni fa). Un "grande sonno" dopo un "grande sogno"? La doppia ora della promessa Capotondi sembra avere il suo perno nell'impossibilità dell'amore. Mentre il Film Più Costoso della Storia del Cinema Italiano, Baarìa, iperprodotto meduseo nonché tunisino, che se va male son guai, fa la storia di una stirpe, al passato novecentesco e prima degli ultimi disastri, quando la Famiglia c'era, e c'era la Città.

Se si escludono le solite ventate "post" che ci vengono dall'Oriente (ma anche dalla francese Claire Denis, che a onor del vero sembra essersi ripresa dalle fascinazioni militar-maschiliste degli inizi, e dal tedesco Werner Herzog, pur sempre eroicamente dannunziano…) sono gli Usa – assenti da tempo dalla scena veneziana gli americo-latini, e quando c'erano, non scherzavano, tra Brasile e Messico, all'inseguimento di tutto il kitsch nazionale e internazionale – quelli che insistono più di tutti sulla tristezza, la mediocrità del presente e la difficoltà dell'incontro a due nel silenzio ormai di ogni collettività, sia essa di quartiere di corporazione di gusto di etnia di fede (Todd Solondz e i suoi cori insoddisfatti, il super-dandy Tom Ford…), o anche sulla "banale" mostruosità che si nasconde dietro ogni singolo tentativo di fuga dalla solitudine: il capitalismo del demagogo Michael Moore o gli zombie di Romero: e il primo domina su un mondo dove pochi vivi continuano a scontrarsi con molti mezzi morti, prima di diventare morti anche loro… Il romanzo di McCarthy, The road, portato allo schermo da John Hillcoat, metaforizza e sovra-sentimentalizza lo stesso dilemma: non più la coppia, e nemmeno la maternità (alla Comencini), solo una nuda paternità.

I film di Fatih Akin (ricerca di senso e d'amore tra Turchia, Germania e perfino la Cina), di Van Dormael (un ragazzo deve scegliere se andare col padre o con la madre), di Shirin Neshat (l'allontanarsi di quattro donne da una Storia brutale), del taiwanese Yonfan (la fatica degli intrecci sentimentali nei durissimi anni '50), di Ahmed Maher (i tre tempi di un uomo con la donna che non ha potuto avere, la figlia della donna che non ha potuto avere, il figlio della figlia della donna che non ha potuto avere…), perfino del grande Patrice Chéreau (l'unico su cui ci sentiamo di poter scommettere, un film dal titolo Persécution, e che tratta di solitudine e paranoia) non sembrano promettere soluzioni collettive o di gruppo, se non forse, la proposta di un circo estivo itinerante (?) che viene dal vecchio Rivette, un tantino spompato... Mentre, infine, Jessica Hausner affida a Lourdes la soluzione del problema della protagonista paraplegica (e funziona!), e in uno dei film più attesi della Mostra, l'israeliano Lebanon di Samuel Maoz, si ritorna alla cruda realtà della guerra, che non dà speranze ai quattro ragazzi costretti a farla e che (siamo nel 1982) non servirà a niente, come le altre passate e le altre a venire, se non a ribadire l'estraneità della Storia e della Società all'ansia di serenità e comunicazione degli individui.
C'è sempre qualcosa da imparare, a studiar le trame dei film che ben pochi lettori vedranno…

31 agosto 2009
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